Come sconfiggere il Covid-19? La “dritta” di Albert Camus: cuore, empatia e sacrifico armi vincenti

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«Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare».

Albert Camus “La peste”

Un’emergenza sanitaria costringe a riflettere sul male, sul bene, sulla sofferenza, sulla solidarietà, sugli egoismi, sulla paura, sull’amore, sulla famiglia, sull’amicizia, sulla speranza: sul senso della vita, sugli uomini, sulla comunità. Ed è proprio ciò che dobbiamo fare in questi giorni magari attraverso l’aiuto di un classico della letteratura come “La peste” di Albert Camus, pubblicato nel 1947.

“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo”. Inizia tutto da questo neutro, insignificante ma insolito rinvenimento. I topi diventano due, tre, poi dieci. Si trovano, sporchi di sangue, a centinaia in tutti gli stabili e le vie di Orano. La gente incomincia a essere inquieta ma poi, finalmente, la moria di topi si arresta. “La città – scrive Camus – respirò.” Per poco. Iniziarono a sentirsi male gli esseri umani: il primo fu Michel, portiere del condominio in cui era stato trovato il topo. I sintomi inizialmente non furono associati a una malattia in particolare. In seguito altre persone accusarono gli stessi malori e Rieux incominciò, da medico esperto, a chiedersi cosa avessero in comune e a cosa potessero ricondursi. Man mano che i numeri dei malati aumentavano e i sintomi si ripetevano – stato di astenia, gangli ingrossati e in suppurazione, febbre – lo scenario si faceva più minaccioso. “La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava di una vera epidemia.”

Con l’aumentare dei casi, le misure si fanno più spietate. “La denuncia obbligatoria e l’isolamento furono mantenuti; le case dei malati dovevano essere chiuse e disinfettate, i congiunti sottoposti a una quarantena di sicurezza, i seppellimenti organizzati”. Il dispaccio del prefetto diventa definitivo: “Si dichiari lo stato di peste. La città è chiusa”.

Se pensiamo un attimo, ci possiamo rendere conto che questo libro duro, difficile, lento, fa male ed è un grande, grandissimo classico: perché è ancora adattabile, plasmabile sui tempi che viviamo, e contiene “l’antidoto per sconfiggere il Covid-19”.

Come si può uscire vincenti da questa situazione?

La risposta non è pessimismo, distanza, depressione intellettuale e rinuncia; al contrario. Camus ci propone la sua via di senso, di umanità, di riscatto, di bellezza. Anche nelle piccole cose, nella disperazione, contro il fato insondabile, si può combattere, si può vincere, ci si può sentire grandi: cuore, empatia, sacrificio in vista del risultato, i piccoli grandi successi (vite salvate e tentativi per salvare) fanno la differenza e riempiono di grandezza.

La fatalità è imperscrutabile, la natura è meravigliosa e tremenda; solo il tempo, la solidarietà e il pensare agli altri aiutano a capire, a sopravvivere, ad essere felici.

Tutto si sconvolge, ma resta una sola speranza: la lotta insieme, la fratellanza. Solo insieme non si esce (tutti) sconfitti, o morti.

Il Covid-19 viene sconfitto in una sola alleanza contro di esso.

Camus presentava la peste come una metafora e per guardare l’uomo di fronte al male. Il male è nella vita ma Camus vuole essere medico e guarire, se possibile, il male altrui, oltre a rifiutarlo in sé per non trasmetterlo ad altri in uno sforzo estremo della volontà.

L’uomo è chiamato ad essere eroe, data l’emergenza del morbo (male) che infetta ogni vita.

“Il microbo è cosa naturale, Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e di una volontà che non si deva mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile.”

Secondo Camus, questo genere di peste ci sarà per sempre, pronto a sconvolgere ogni città e ogni mente, senza che l’uomo riesca a trovare un senso alle azioni malvagie della propria specie. Non per questo non bisogna reagire, anzi: per il filosofo, strenuo sostenitore della Resistenza antinazista, gli uomini devo unirsi, collaborare, mantenere rapporti di solidarietà e partecipazione, e, insieme, lottare e resistere contro ogni soppressione e ingiustizia.

Il Coronavirus per me può essere concepito come una “Potente metafora di ogni tempo corrotto”. Un manifesto di quanto c’è di umano e disumano nell’uomo ricordandoci che di fronte alla morte, siamo tutti uguali: spaventati, piccoli e, soprattutto, soli mettendo in evidenza come il dolore trasforma gli uomini e il loro modo di amare, di comportarsi e di sperare.

Invito tutti voi lettori/lettrici a soffermarvi su quanto viene detto nel libro: “Egli sapeva, infatti, quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere e che forse sarebbe venuto il giorno in cui la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

Tutto questo può accadere anche con il Covid-19!

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